L’ultimo album dei Foo Fighters è la sintesi perfetta dell’essenza dei Foo Fighters

Dopo la fine improvvisa della rock band che probabilmente ha più cambiato il corso della storia della musica pop rock, avendo reso mainstream ciò che prima era solo underground, nel 1994, il batterista di suddetta band non riusciva a darsi pace e non sapeva come esprimere il suo dolore. Non voleva nemmeno più fare il batterista, a dirla tutta, sebbene glielo chiedessero in tanti, tra cui artisti del calibro di Tom Petty. A malapena riusciva ad ascoltare musica, era entrato in un vero e proprio stato di depressione. Poi si fece convincere, e partecipò a una serata. Capì che una prima fase dell’elaborazione del lutto – e forse una catarsi – potevano arrivare solo con la musica. Quindi si chiuse in uno studio di registrazione che prenotò per sei giorni a Seattle, non lontano da dove abitava, tirò fuori tutte le canzoni più belle che pensava di avere scritto negli ultimi cinque anni ma che nessuno aveva mai ascoltato prima, e registrò da solo tutte le tracce di quello che sarebbe diventato il primo album di una band che nel 2020 ha compiuto 25 anni.

Se non poteva più fare il batterista con il suo amico che si era sparato un colpo in testa il 5 aprile 1994, non poteva che accogliere la sua eredità e diventare lui stesso il frontman di una nuova band.

Non usò il suo vero nome, perché per lui non era ancora nulla di serio e non aveva elaborato del tutto il lutto del frontman della sua vecchia band. Decise di stampare solo un centinaio di copie dell’album e iniziò a passarne alcune con il nome “Foo Fighters” impressovi sopra ad alcuni amici fidati e conoscenze del settore musicale nella west coast. Poi dovette iniziare a fare altre copie in musicassetta, perché la gente sembrava apprezzare, e finì che queste cassette giunsero inevitabilmente a delle etichette discografiche. Un produttore conosciuto qualche anno prima gli propose di mixare le tracce professionalmente, il batterista-ora-diventato-cantante capì che la cosa si stava facendo seria e reclutò una band vera e propria.

Erano nati i Foo Fighters.

L’album era un esplosivo mix di alternative rock, hard rock, punk rock e grunge. Sembrava di ascoltare Nevermind dei Nirvana alla seconda, per alcuni tratti. Il primo singolo, che è anche la prima traccia dell’LP, “This is a call”, sembrava già guardare con positività al futuro energico del post-grunge: “This is a call to all my / Past resignations / It’s been too long”. Nella seconda, Dave Grohl annunciò chiaramente “I’ll stick around”.

Cosa ne sarebbe stato, di una band che poteva sembrare solo la copia sbiadita dei Nirvana?

Questa domanda forse ai tempi poteva essere lecita, ma di certo è impensabile nel 2021, pochi giorni dopo l’uscita del decimo album dei Foo Fighters, Medicine at Midnight.

Negli ultimi mesi del 2020 inizia a girare per le radio un singolo che preannuncia un sound completamente nuovo, che ai più disattenti potrebbe fare percepire che Dave Grohl e soci durante il lockdown si siano ammattiti e abbiano quindi deciso di cambiare completamente sound. Ma non è il caso in realtà di un album che è stato registrato interamente prima della pandemia, in poche settimane alla fine del 2019, e che per la band doveva essere “un album da party del sabato sera, adatto per fare festa“, in occasione dei 25 anni della band. 

Inutile dire che questo album non è stato né pubblicato nel 2020 né ha avuto modo di essere ascoltato come album di rock festaiolo da nessuno al mondo, soprattutto dal vivo e in mezzo alle persone, men che meno durante un concerto. 

Ma è un album che prima o poi doveva vedere la luce, perché ha avuto il coraggio di fare i conti con la storia della band: dai sei giorni in studio di registrazione nel 1994 per passare da capolavori come “Everlong” o “Learn to Fly” e alle prime sperimentazioni di inizio anni duemila, quando Dave compì forse la catarsi completa con “In Your Honor”, fino alla maturità con album come Wasting Light del 2011, Sonic Highways del 2014 e il più ambizioso Concrete and Gold del 2017.

Dentro questo album c’è tutto questo e anche molto di più: in 37 minuti sono condensati puro rock’n’roll, funk, grunge, dance, pop rock. Ci sono pezzi che non si riescono a smettere di ascoltare come “Making a Fire”, i classici Foo Fighters da power rock ballad di “Waiting for a war”, riff che fanno muovere la testa su e giù come “Love Dies Young”, capolavori istantanei come “Holding Poison”, brani che non si vede l’ora di ascoltare live come “No Son of Mine”.

Come dice Dave Grohl stesso:

Se sei in una band da tanto tempo, ti accomodi nella dimensione con cui le persone hanno una certa familiarità. In una sorta di ambizione alla longevità, devi essere in grado di provare cose che non hai mai fatto prima.

Una dichiarazione di “ambizione alla longevità” che suona esattamente come la conclusione di quel percorso di catarsi che Dave Grohl aveva iniziato nell’ottobre del 1994. Una ambizione di longevità che è un dovere per quei pochi che ancora possono esprimere il lascito del grandioso movimento grunge degli anni 90, dopo che Andy Wood, Kurt Cobain, Layne Stayley, Scott Weiland e Chris Cornell – solo per dirne alcuni – ci hanno lasciato troppo presto, alcuni più di altri. Per compensare la loro mancanza e per aiutare a loro volta anche noi ad elaborare questi lutti. 

In definitiva, l’ultimo album dei Foo Fighters è la sintesi perfetta dell’essenza dei Foo Fighters. La catarsi è definitivamente compiuta.

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